Questo mese continuiamo e pubblichiamo
la seconda parte dell’articolo di Paolo Crepaz, iniziata il mese
precedente. In questa porzione l’autore sottolineerà l’importanza
dell’aspetto sociale nella pratica delo sport e di come
quest’ultimo debba venir praticato nella verità, quella verità
che scaturisce dall’amore verso l’altro.
TRA GIOCO E AGONISMO
Chi pratica lo sport non sempre si cura di
percepire a pieno i valori e i significati del fatto sportivo: si
gioca perché piace o conviene giocare, perché si sente l'esigenza
di competere, senza porsi tante domande. Ma chi opera con
intenzionalità educativa nel mondo sportivo, specie giovanile, sa
che i due elementi essenziali dello sport - il gioco e l'agonismo -
possono diventare tappe di partenza nello sviluppo integrale della
persona.
Il gioco è rivincita dell'homo ludens sull'homo
faber: restituire allo sport la sua ineludibile connotazione ludica e
promuoverne la gratuità significa aiutare l'uomo a liberarsi dalla
morsa dell'utilitarismo, dall' attaccamento idolatrico al lavoro, e,
oltre tutto, a dispiegare le esigenze dello spirito. Favorire
l'ingresso del gioco nelle pieghe dell'esistenza appare un aspetto
non marginale per la realtà del mondo attuale.
È la dimensione agonistica del gioco e dello
sport che spinge ad andare oltre i limiti delle prestazioni
precedenti e a superare gli avversari. Ma solo una parte
dell'agonismo si risolve nel lottare contro gli altri: l'altra,
quella maggiore, consiste nel lottare contro i mille volti del
negativo annidato nel cuore, come i raggiri per eludere le regole, i
facili vittimismi, le aggressioni verbali verso gli antagonisti, le
ribellioni alle decisioni arbitrali non condivise, il ricorso al
doping, eccetera.
Lo slancio agonistico non educato porta alla
ricerca del risultato a ogni costo, a cercare la vittoria come valore
assoluto, a giocare "contro" anziché "con" gli
avversari e persino a farli apparire come nemici. È estremamente
provocatorio il fatto che il pensiero cristiano, a volte a torto
interpretato come pensiero debole e accondiscendente, inviti a mete
impegnative ed elevate. Eppure proprio questa indicazione può dare
alla spinta agonistica il giusto orientamento: trasformarla da
semplice ricerca di risultati tecnici, che pure bisogna tenacemente
perseguire, a nostalgia di traguardi più lontani, sconosciuti a
giudici di gara o tifosi. Gli orizzonti più ampi dello sviluppo
integrale della propria persona, fino ad arrivare a scoprire il
progetto di Dio nelle sfumature delle proprie esperienze ludiche,
sportive e agonistiche, si possono dischiudere anche grazie alla
attività fisica e sportiva.
Ecco perché dovrebbe scomparire una visione dello
sport, specie in passato presente anche fra i cristiani, come
semplice passatempo, come semplice mezzo per togliere ragazzi dalla
strada o come occasione fra le tante per dire loro una buona parola.
Se lo sport «è un valore dell'uomo, un luogo di
umanità e di civiltà», non vogliamo cedere alla tentazione di
pensare che solo un certo tipo di sport educhi: quello non
agonistico, quello nella natura, quello senza classifiche, quello
senza vincitori né vinti. È una tentazione sottile, comprensibile,
ma smentita dal pensiero che «nulla vi è di genuinamente umano che
non trovi eco nel cuore dei cristiani».
SUPERARE IL FAIR-PLAY
Le espressioni di crisi dello sport di oggi
evidenziano che l'azione educativa non può limitarsi a richiamare
alla coscienza dei praticanti astratti valori e principi etici:
evidentemente né una generica ideologia pansportiva, né un sempre
più disatteso fair-play di facciata, possono rivelare all'uomo,
attraverso lo sport, il significato e il fine ultimo della propria
esistenza.
Con l'attenzione ai valori più alti dell'
esistenza umana, lo sport rivela la dimensione essenziale dell'uomo
sia come essere "finito" (sconfitta, infortuni, incapacità
di altruismo o ad accettare un verdetto negativo) sia come essere
"infinito", capace di risorgere in ogni tentativo di
superare i propri limiti. Non si tratta in sostanza di aggiungere
nuovi contenuti allo sport, ma di evidenziarli e collocarli nella
giusta direzione. Non si tratta tanto di condannare o di sfuggire
dallo sport di oggi, dalle sue contraddizioni, dalle sue disperate
corse verso l'onnipotenza o l'immortalità, dalla sua schiavitù al
denaro. L'uomo è competizione, è vittoria e sconfitta, è tensione
alla perfezione e abisso di incertezze, e come tale vuole essere
accettato, capito, amato. È una sfida ambiziosa quella di "farsi
uno", accettando senza riserve, non tanto con lo sport di oggi,
quanto piuttosto con chi lo pratica, contribuendo a instillare
silenziosamente e con pazienza germi di positivo.
L'AMORE EDUCA
Ma chi sa educare in questo modo? Educare deriva
da educere, tirare fuori, una prospettiva che invita
più a cavare dall'allievo le verità che ad instillarvele
dall'esterno. Si impone la necessità che il maestro sappia trarre da
se stesso e dagli altri le verità onde averne un raffronto. Ma chi è
in grado di far germogliare le verità che vivono in lui e negli
altri?
Come occorre la primavera perché un giardino
fiorisca, allo stesso modo si rende necessario un calore - quello,
pensiamo, che nasce dall'amore - per far germogliare le verità. Le
teorie pedagogiche, comprese quelle sportive, hanno sentito nel tempo
l'esigenza di tener conto che esiste una dimensione fondamentale
dell'uomo che porta conseguenze decisive per l'educazione e
l'apprendimento: la sua naturale socialità. Questo lascia intuire
che anche l'educazione vada costruita e raggiunta a corpo, in
quell'atteggiamento che ci fa aperti a lasciarci completare dalla
conoscenza altrui, tanto più che oggi nessuno può arrivare ad avere
una conoscenza che comprenda tutta la realtà.
Probabilmente «non basta un qualunque lavoro in
équipe, un mettere assieme tante idee, tante conoscenze, per trovare
una sintesi». Realizzando in un'autentica comunione di vita il
processo educativo, la formazione potrà risultare piena, totale,
capace di impegnare tutto il nostro essere e determinare la nostra
vita.
Ci affascina la sfida di conoscere quale
progettualità educativa possa venire da persone «che siano loro
stesse fuse in unità» in un' atmosfera di calore reciproco,
un'unità che per il credente arriva fino a poter sperimentare quanto
possano essere vere le parole di Gesù: «Dove due o tre sono riuniti
nel mio nome, io sono in mezzo a loro». E per questo: «Non fatevi
chiamare maestri, perché uno solo è il vostro maestro». È
un'indicazione misteriosa, ma affascinante: chi ha sperimentato
l'amore reciproco sa che questo porta la presenza del Maestro, quello
con la emme maiuscola, in mezzo alle persone.
Chi crede nei valori dell'uomo, anche senza
legarsi a riferimenti religiosi, può condividere e sperimentare
quanto un sincero e profondo atteggiamento di fiducia reciproca fra
chi educa e chi è educato attraverso lo sport, sia precondizione ad
un apprendimento efficace. Quanto è importante, ad esempio: saper
perdere tempo per ascoltare le confidenze di un ragazzo che si forma
in una disciplina; o dialogare con genitori carichi di aspettative a
volte ingiustificate; o far comprendere a un atleta la stima che si
nutre per il suo duro lavoro, indipendentemente dai risultati
sportivi; o viceversa quanto sia rilevante lasciare con fiducia al
tecnico il tempo necessario per coltivare talenti e ottenere
risultati; o non coltivare pregiudizi nei confronti del giudice di
gara, concedendogli di svolgere senza condizionamenti un ruolo
importante di servizio allo sport; o ancora sperimentare quanto
divenga concreta la fiducia reciproca nell'arrampicarsi in cordata
legati l'un l'altro.
L'amore è per sua natura esperienza concreta e lo
sport offre questa opportunità educativa straordinaria: quella di
poter verificare, giorno dopo giorno, l'unità esistenziale fra
teoria e prassi, fra aspirazioni e imprese, fra obiettivi e risultati
reali, fra convinzioni più o meno fondate e imparzialità del
cronometro. La messa in pratica, nel processo educativo e sul campo,
non solo è mezzo per conoscere la realtà, ma strumento di
formazione umana reale ed effettiva. Il lavoro ci dà il senso del
reale: ci aiuta ad uscire dai libri e trovare un pensare che sia
vita, essere, umanità.
PAOLO CREPAZ
Tratto da Nuova Umanità XXVII (2005/2) 158, pp.
340-344