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AZUR è presente e attiva sul mercato da più di 35 anni. Situata tra le verdi vallate del Chianti, è una tra le maggiori aziende in Italia nel campo degli arredi per la Prima Infanzia. Realizzare cose belle, utili, che possano essere funzionali alle esigenze delle mamme e accogliere, in piena sicurezza e in grande armonia, i primi passi del bambino è la nostra mission. Creatività, artigianalità, amore per il bello. AZUR in questi anni ha raccolto le sfide di un mercato in continua evoluzione ed è cresciuta rinnovandosi continuamente e creando sempre nuove linee di prodotti. I prodotti a marchio AZUR e il “segreto” che li anima sono a disposizione nei 600 punti vendita sparsi sull’intero territorio nazionale. AZUR distribuisce i prodotti a marchio BEABA e BEBECAR sul territorio nazionale.

mercoledì 15 dicembre 2010

Un dono grande - Esperienza di una mamma


Ci ha scritto Chiara che ha condiviso con noi i sentimenti del primo parto e quelli di essere mamma di tre splendidi bambini.

"Un figlio arriva. Qualche volta è desiderato, sperato, sofferto, qualche volta è un fulmine a ciel sereno, che ti cambia la vita.
Subito.
Ogni mamma, prima ancora di fare qualsiasi accertamento, lo sa. Qualcosa di strano si sente dentro di sé, qualcosa che non ha ancora un nome, ma che ben presto lo avrà.
Nausea, stanchezza ingiustificata, strani dolori sono alcuni dei primi sintomi che dicono: “
Attenzione, bimbo in arrivo: ricordatevi che non è una semplice passeggiata”!
È vero, niente di semplice, soltanto “straordinario”.
Da subito è inevitabile sentirsi già genitori, iniziare a sognare e fantasticare su come cambierà la vita quando il figlio nascerà. Ma la vita è già cambiata. La neo mamma spesso è impacciata, fatica a fare quello che faceva prima, è più lenta e qualche volta l’umore non è dei migliori.
Tante paure si accavallano nella testa.
Poi, per fortuna, qualcuna ha l’occasione di partecipare ai corsi pre parto, e di scoprire che le stesse paure e le stesse sensazioni sono comuni a tante altre neo mamme.
Anche il ginecologo fa la sua parte. Riesce a stupire, girando una semplice manopola: si sente il battito del nascituro! L’ecografia, un mondo misterioso, permette di continuare a sognare, con la certezza che il tuo piccolo è li veramente, dentro quella enorme palla che è la pancia della neo mamma.
Intanto i mesi passano ed il gran giorno si avvicina.
Aumenta la gioia, ma anche la paura: tutte le mamme dicono che è dolorosissimo partorire.
Io non lo so.
È una gioia immensa, non può non commuoverti, lasciarti senza parole una vita che nasce.
Anche se con taglio cesareo.
Il piccolo Francesco è nato ed ora è uno splendore.
Talmente splendido che non poteva rimanere figlio unico.
Marta e Sara gli fanno compagnia."

mercoledì 1 dicembre 2010

La favola dei tre saggi

Servizio, Amore e Sacrificio
C'era una volta, ma tanto tempo fa, che oggi non ci si ricorda nemmeno quasi più, c'era una volta lontano in una lontana terra sperduta uno studioso che, dopo aver studiato tutto, non sapeva come fa a reggersi l'universo.
E voi lo sapete, bambini?
Per questa ignoranza costui era dispiaciuto così tanto che gli pareva di aver studiato invano e di non sapere niente. Così chiedeva a tutti: «Come si regge l'universo?». Lo chiese al sole ed esso disse: «Prova a chiederlo al cielo». Perché il sole non lo sapeva. Ma il cielo rispose: «Prova a chiederlo alle nubi», e le nubi all'acqua e l'acqua alla terra e la terra ai fiori e i fiori al sole. Ma non lo sapeva nessuno.
Finalmente una vecchina, che era lì per caso e aveva sentito tutto, disse: «Se ti metti in cammino e cerchi i tre saggi, potrai aver da loro la risposta che cerchi». Quegli si mise subito alla ricerca, e spese tutte le sue ricchezze per cercarli, tutte le sue forze per raggiungerli, tutto il suo ingegno per trovarli e finalmente li trovò.
E il primo gli rispose: «La legge che regge l'universo è il servizio, perché ogni cosa è in servizio all'altra. Ma, se vuoi saperne di più, chiedilo al secondo saggio».
E il secondo gli disse: «La forza dell'universo è l'amore, perché un servizio senza amore è una schiavitù».
Ma, se vuoi saperne di più, chiedilo al terzo saggio. E il terzo disse: «L'universo si regge sul sacrificio, perché senza di esso non c'è né dono, né amore, né servizio».
Quando quell'uomo li lasciò aveva il cuore in festa e, come senza motivo, si ricordò del volto della mamma e pianse di gioia.
Tratto da "C'erano una volta...due re" di Domenico Gioia - Giuseppe Tradigo Editore

lunedì 29 novembre 2010

Rumori di sottofondo - Quando i genitori distraggono i figli davanti alla tv


Sempre più spesso nelle case, con la presenza di bimbi piccoli, la tv rimane sempre accesa. Quando si rientra a casa, molti genitori, come prima cosa, accendono la televisione e vi mettono davanti i propri figli. Ricerche condotte in migliaia di famiglie hanno evidenziato che nelle case dove ci sono bambini piccoli la televisione può rimanere accesa, nell’arco della giornata, anche per otto ore.
I bambini piccoli, anche se impegnati in altre attività, vengono continuamente distratti da un televisore acceso. Molti genitori credono che i bambini, essendo ancora piccoli, non capiscono i programmi televisivi e che i suoni e le immagini che vi provengono non li disturbano. E’ vero tutto il contrario. La televisione favorisce nei bambini un’abitudine a fare più cose contemporaneamente e a non concentrarsi su quello che stanno facendo.
Quando un bambino sta giocando e il televisore è acceso, egli viene continuamente distratto nella sua attività ludica e ciò comporta che, le continue occhiate che rivolge allo schermo, gli fanno riprendere con più fatica il gioco che sta facendo. Quest’abitudine può comportare in età più adulte il persistere di difficoltà di concentrazione, in particolare quando si dovrà affrontare la scuola superiore o l’università.
L’assenza della televisione nella attività di gioco e di formazione dei bambini comporta per i genitori un impegno e sforzo maggiori ma permette sicuramente di poter educare i figli alla socialità e al gioco.
(Tratto da Cittanuova n. 21 - 10.11.2010 www.cittànuova.it).

martedì 16 novembre 2010

Mastro Ciliegia - la responabilita' di fare crescere

Appunti post campo dei miracoli
Riportiamo degli appunti e spunti di, Chiara Godina, esperta in pedagogia infantile, dopo un laboratorio tenuto per genitori.
Mastro Ciliegia era un falegname; vista la difficoltà a gestire un "particolare" pezzo di legno, decide di disfarsene e di regalarlo a mastro Geppetto.
Quante volte noi, genitori, abbiamo pensato o sperato che qualcun altro prendesse il nostro posto?
Ci è mai capitato di "sperare" che la scuola potesse fare, almeno in parte, le nostre veci, soprattutto laddove noi non siamo stati "capaci"?
E' capitato di incolpare la scuola, le insegnanti, la baby sitter, la nonna, la zia o la cugina di non aver soddisfatto le nostre esigenze di genitori "deleganti"?
La risposta a queste domande è il nostro punto di partenza; il peso ed il valore delle risposte costituiscono la "responsabilità" che noi, in prima persona, ci siamo assunti nell'educare i nostri figli.
Mastro Ciliegia ha delegato. E noi? Che genitori vogliamo essere?
Se imitiamo mastro Geppetto ci assumiamo certo una grossa responsabilità: pensate a quante ne ha combinate Pinocchio! Fortunatamente Geppetto è stato ampiamente ripagato di tutte le sue fatiche ed è diventato padre di un bimbo in carne ed ossa. L'amore ha avuto il sopravvento!
Così è nella nostra vita. Non ci sono poi tante differenze tra le fatiche che oggi, nel 2009, noi genitori dobbiamo affrontare nel crescere i nostri figli, da ciò che accadeva alla fine dell'800, quando Collodi ha scritto questo romanzo.
In fondo, noi come Geppetto, dobbiamo accettare che i nostri figli siano "altro da noi", ovvero che diventino se stessi e non siano una copia imperfetta di quello che noi avremmo voluto essere (ma non siamo!).
Le fatiche dell'educare non devono essere finalizzate ad inculcare ai nostri figli il nostro modo di essere, ma devono essere un accompagnamento per far si che i loro talenti e le loro capacità emergano e si sviluppino in una particolare direzione, che non necessariamente è quella che noi abbiamo in mente. Ovviamente, da bravi genitori, faremo di tutto per far sì che la strada intrapresa dai nostri figli sia una strada "buona" e soprattutto cercheremo di essergli vicini quando incontreranno un bivio particolarmente pericoloso.
Per fortuna nel nostro cammino non siamo soli: parenti, amici, insegnanti fortunatamente ci sono. La loro "presenza" va però adeguatamente valorizzata: un reciproco confronto ed ascolto può permetterci di vedere qualcosa nei nostri figli che a noi sfugge (o che non vogliamo vedere). Proprio per il loro bene non dobbiamo vedere in loro solo ciò che funziona o solo ciò che non funziona. Gli estremi non sono mai la scelta migliore. Riuscire ad avere una buona capacità critica nei confronti dei propri figli è molto difficile, soprattutto se si è da soli. Fondamentale allora è, quando possibile, il confronto tra le due figure genitoriali (padre e madre) o chi ne fa le veci, ed il personale educativo e di riferimento per il proprio figlio.
Assumiamoci allora questa responsabilità, senza delegare, condividendo e crescendo insieme!

mercoledì 10 novembre 2010

Scoprire di aspettare un bambino

Emozioni, aspettative, paure di chi scopre di essere incinta
Scoprire di essere incinta è una delle emozioni ed avvenimenti, forse, più importanti nella vita di una donna. Ringraziamo Martina per averci scritto alcune righe sul suo nuovo stato interessante.

Quando sono rimasta in cinta l'ho sentito subito. La mattina dopo mi sono svegliata e mi ha dato subito fastidio l'odore di candeggina, cosa che di solito non mi è mai successa. Il giorno dopo mi sono sentita diversa… non mi sentivo più sola dentro di me, sentivo la “presenza” di qualcosa, una presenza non fisica, piuttosto di un cambiamento nel mio corpo. E’ difficile da spiegare ma “mi sentivo mamma”. Dopo un paio di giorni sono incominciate le voglie, ho iniziato ad avere voglia di mangiare i cibi che non avrei mai mangiato prima di essere incinta… inoltre il mio stato d’animo ha iniziato a cambiare in modo repentino, a momenti mi sentivo felice e a momenti piangevo. A livello fisico ho sentito dei doloretti all'ovaia destra e una stanchezza incredibile.
Causa il cambio di alimentazione che mi ha portato a mangiare molta frutta acida rispetto a quanto facevo di solito ho avuto un periodo di nausee abbastanza fastidiose. Sono così corsa al riparo cambiando la dieta ed introducendo molti più cibi amidacei e proteici. Ho sperimentato che seguire un po’ le voglie mi faceva bene, nel senso che le nausee scomparivano, ma l’ho sempre fatto con coscienza, non esagerando nel mangiare cibi troppo grassi o altamente calorici. Sono sempre stata molto attenta alle combinazioni alimentari e ho continuato a farlo: è mia la responsabilità di iniziare e mantenere una buona alimentazione durante la gravidanza per assicurare al bimbo, sin dalle prime settimane di vita nel mio grembo, il nutrimento e le mie condizioni fisiche migliori. Ora la consapevolezza di che cosa che mangio e che avrei mangiato influenza lo sviluppo del/la bimbo/a mi ho reso molto più responsabile nella cura del mio corpo.
Quando, dopo 2 settimane in cui ho iniziato ad accusare i sintomi di una gravidanza, ho avuto la conferma del test: era certo, una nuova vita aveva preso posto in me e ha iniziato a svilupparsi! Da quel momento in poi ho iniziato a pensare per due...non c’è stato un grande ragionamento, è venuto spontaneo, istintivo. Mi sono sentita estremamente felice di essere mamma per la prima volta nella mia vita.
Le prime settimane non sono state psicologicamente facili perché è sopraggiunta la paura per un possibile aborto, che può capitare nel primo periodo, di solito entro la dodicesima settimana e così ho optato per la decisione di non divulgare la notizia della gravidanza se non alle persone più vicine fino a che questo pericolo fosse scongiurato.
E’ stato molto rassicurante informarmi subito su cos’è un embrione e come si sviluppa durante la gravidanza e sui metodi di parto… ciò mi ha tranquillizzata moltissimo. La decisione sulla tipologia di parto non l’ho ancora presa… quello di cui sono convinta è che partorire sia un avvenimento molto bello e di cui non c’è nulla da temere. Credo che alla fine propenderò per una metodologia di parto “dolce” che mi permetta di essere subito a contatto con il mio bambino, o in acqua
o in casa o entrambi. Sono convinta che il primo contatto con l'ambiente esterno sia molto importante per il bimbo e che incida ed influenzi la sua percezione futura della vita.
In questo periodo cerco, oltre che di assecondare qualche voglia alimentare e ad essere attenta alla dieta e alla mia salute, anche di assecondare le mie passioni, una delle quali è per la musica classica. La musica, ascoltata in relax, mi rilassa ma sono convinta che fa anche udire al bimbo suoni armoniosi e dolci, i quali influiranno positivamente nel suo futuro. Mi piace l’idea di frequentare un corso per gestanti che abbini il parto in acqua assieme all’ascolto di musica… questa è un'idea.
"

lunedì 8 novembre 2010

Andare alla scuola materna

A volte i bambini possono avere atteggiamenti a prima vista contraddittori
A volte può capitare che portando il bimbo alla scuola materna, anche se di carattere socievole, che voglia continuare a stare in braccio alla mamma, facendo i capricci, magari piangendo, perchè non vuole rimanere da solo. Quando invece si va a riprenderlo, alla fine della giornata, a sorpresa, può avere un atteggiamento contrario, cioè che non voglia venire e che continui a giocare. Come interpretare questo suo atteggiamento a prima vista contraddittorio? Che fare?
Riportiamo un intervento del dr. Ezio Aceti da Città Nuova di ottobre 2007 che tratta proprio di questa problematica.
"Il bambino che piange quando lo si accompagna alla scuola materna, non è capriccioso e tanto meno cattivo, ma perfettamente normale. Egli vorrebbe stare sempre con la madre perché ciò lo rassicura. Come comportarsi con lui? Quello che è importante è la modalità di separazione che deve avvenire in modo naturale tenendo conto del suo vissuto. Al momento del distacco, egli è in ansia perché ha paura di rimanere sempre senza la madre. Col pianto manifesta all'esterno questo timore che lui vive in modo esagerato perché non è ancora padrone del tempo e non ha ancora sufficiente esperienza. Il bambino, si può dire, ha le sue ragioni per piangere. È bene rispondergli tenendo conto di ciò e facilitare l'inserimento nella realtà, dando senso alla separazione che sta per avvenire. Questo è quello che vorremmo venisse fatto a noi quando soffriamo. Cioè vorremmo che chi ci sta vicino ci comprendesse e ci incoraggiasse a fare bene, senza rimproveri o minacce. Così è per il bambino ogni volta che si deve separare dalla madre o da qualche cosa che gli piace. Gli si può dire: Lo so che tu vorresti stare in braccio alla mamma, ma adesso devi andare dalla maestra. Sono sicura che tutto andrà bene e quando verrò a riprenderti mi racconterai cosa hai fatto. Queste o altre parole suggerite dall'amore non sono di poco conto perché possono dare senso alla sofferenza del distacco. Il pianto non deve preoccupare. Occorre comprendere che la madre è per il piccolo la prima figura di attaccamento. Le modalità di separazione da lei fanno spesso il discrimino fra uno sviluppo normale o patologico. La presenza o l'assenza fisica e mentale della figura materna è una condizione della massima importanza nel determinare lo sviluppo emotivo di un bambino. Le vicende separative costituiscono la base di un sano sviluppo individuale. Ne sono una testimonianza le varie problematiche che vengono riscontrate in persone che hanno subito un abbandono precoce da parte della madre. Un normale attaccamento, come quello di suo figlio verso di lei, prefigura una persona che sa aiutarsi, che sa chiedere e dare aiuto, con una buona immagine di sé e fiducia negli altri."

mercoledì 20 ottobre 2010

La perdita di un figlio


La riscoperta della gioia dei piccoli avvenimenti quotidiani
Questo mese siamo felici di pubblicare un'esperienza di una nostra collaboratrice, Candy, che ha sperimentato, anche nella tragicità della vita, che il valore delle piccole cose quotidiane possono dare gioia e senso alla vita.
"Diventare mamma è la cosa più stupenda che mi sia mai capitata in questa vita, e devo dire la verità che non avrei mai immaginato quanto bello, meraviglioso e coraggioso potesse essere far nascere un figlio.
In questi ultimi tre anni con l’arrivo del nostro piccolo José Manuel ho imparato tantissimo dalla vita. José Manuel era davvero un sole!, potevo passare ore solamente a guardarlo, e poi tanta pazienza, tanto amore, tanti sogni...
La vita, lo so, è un mistero, non potremo mai sapere il perché delle cose, però sono convinta che bisogna andare sempre avanti! Poco dopo la nascita di José abbiamo saputo che il nostro piccolo aveva una terribile malattia che pian piano lo ha portato "in cielo", in soli pochi mesi. Da parte mia e di mio marito non abbiamo fatto altro che amarlo più che potevamo, sapendo che da lì a poco sarebbe “volato in cielo” e abbiamo cercato di cogliere ogni attimo della sua vita con gioia, per amore a lui.

Sono passati ormai due anni dalla sua partenza al cielo, e con grande gioia ora con noi c’è il nostro secondo bambino, Nicolas Nicodemo, di 11 mesi. Ora posso dire che essere mamma per me è godere della presenza di mio figlio apprezzando tutto quello che la vita ci sta regalando, soprattutto nelle piccole cose: ogni sorriso anche se piccolo, i momenti di gioco, anche quando sono stanca e lui piange e devo alzarmi la notte per dargli da mangiare, oppure quando avrei tanta voglia di disegnare al computer come facevo prima ma non posso per accudirlo. Ora la mia vita ruota attorno a lui. Bisogna avere tanta pazienza e quando sarà il momento potrò ritornare a fare il mio lavoro.
Nel frattempo mi dico sempre che Nico lo potrò veder crescere solamente una volta, quindi ne devo approfittare di questa unica occasione."

E così nella nostra vita familiare quotidiana sono tanti i momenti dove possiamo dire Grazie Dio per mio figlio!, nonostante la tragica perdita di José Manuel.
Grazie Candy per questa splendida esperienza e complimenti per la vostra bellissima famiglia.

martedì 3 agosto 2010

Dirgli la verita' o no? In caso di adozione che fare?


In questo articolo abbiamo preso spunto da una risposta di Ezio Aceti pubblicata su Città Nuova che risponde a due genitori di Viterbo che hanno da poco adottato un bambino.
Da un mese abbiamo adottato Manuel, un bellissimo bambino di 15 mesi. Ci poniamo alcune domande: avendolo adottato così piccolino, è giusto dirglielo? In che modo? E poi, essendo scuro di carnagione, come si inserirà con gli altri? E poi, riusciremo a rispettare le sue inclinazioni naturali?.
Ezio Aceti così Risponde... "E poi, e poi... Quante domande ci poniamo come genitori! Il timore di sbagliare ci accompagna sempre. Forse, ciò sta a indicare una verità fondamentale, ossia che i figli (naturali o adottati) non sono nostri e non ci appartengono, ma ci sono affidati e proprio per questo dobbiamo averne la massima cura. Però, stiamo sereni perché se amiamo e le nostre intenzioni sono rivolte al bene tollerando anche gli eventuali nostri errori, allora possiamo essere sicuri che tutto andrà per il meglio. Vi ringrazio delle vostre domande perché mi danno la possibilità di parlare un po' dell'adozione. Essa è una realtà bellissima ed importante che testimonia il valore della famiglia come contesto vitale per ciascun bambino. Ciò che è importante per voi è quello di essere una vera famiglia, in grado di comprendere i bisogni e le necessità del figlio: la famiglia perfetta non esiste (penso che sarebbe anche un po' noiosa!). Esiste la famiglia umana, con la sua storia e le sue risorse. E allora cosa dire, cosa fare? Anche se i compiti di tutte le famiglie sono gli stessi, le adozioni non sono tutte uguali. Si possono adottare neonati, bambini piccoli in età prescolare (come il caso del nostro piccolo Manuel), bambini già in età scolare o addirittura adolescenti; bambini italiani, europei, di altri continenti con culture e tradizioni diverse. Inoltre, è opportuno tener conto che i genitori biologici possono essere morti o viventi, si possono contattare oppure no. Infine, bisogna avere presente che i bambini possono ricordarsi dei loro primi genitori ed anche dei loro primi anni di vita, oppure non avere alcun ricordo. Nonostante ogni realtà sia diversa, ciò che importa è come il bambino riesca ad accettare e ad integrare nella sua vita l'adozione, considerandola come un evento coerente della sua storia. Proprio per questo motivo, bisogna sempre dire al bambino la verità. Certo le parole da usare debbono essere semplici e rispettose del suo livello emotivo e affettivo e soprattutto, dopo aver detto al bambino la verità possibile (non è sempre necessario comunicare tutti i particolari), non bisogna mai fare domande dirette per verificare se ha capito. Sarà il bambino stesso a chiedere ciò che gli serve. E se non chiede, significa che va bene così, che quanto è stato detto è sufficiente. Generalmente occorre comunicare subito al bambino che è stato adottato e, per bambini così piccoli come Manuel, ciò sarà per lui un'informazione che riceve insieme a tante altre. Man mano che crescerà incomincerà a rendersi conto del colore della sua pelle e porrà domande specifiche, alle quali occorrerà rispondere con verità e semplicità. L'importante è la serenità degli adulti: Se si è tranquilli nel rivelare la verità e nel rispondere alle domande che inevitabilmente seguiranno, ciò si trasmetterà al bambino, che accetterà la sua condizione come un dato di fatto, una realtà fra le tante altre della vita.

A proposito delle parole da dire, la psicologa infantile Anna Oliverio Ferraris scrive: La scelta delle parole è significativa. Se, per esempio stiamo parlando della madre biologica, è meglio evitare di indicarla come la tua vera mamma perché questo può indurre a pensare che i genitori adottivi non sono dei veri genitori. Con i più grandicelli si può dire la prima mamma. Con i più piccoli la mamma-pancia o qualcosa del genere. Leggere o raccontare una storiella simpatica su un bimbo o una bimba adottata è una strategia efficace per introdurre il racconto della adozione. (Anna Oliverio Ferraris, Le parole dei bambini, Rizzoli)".

venerdì 23 luglio 2010

La televisione in famiglia


Bambini, teledipendenza e famiglia in prospettiva pedagogica
Questo mese riportiamo qualche spunto di riflessione sul tema dell’ambito bambino-televisione-famiglia prendendo spunto da una conversazione del prof. Milani contenuta nel DVD edito da Famiglie Nuove dal titolo “Famiglia e Società, nuovi percorsi nell’educare”.
Affrontiamo il tema vasto del rapporto bambino – tv – famiglia in termini di comunicazione in funzione formativa, anche se oggi sarebbe necessario, assieme alla tv, includere anche internet: in questo intervento ci limitiamo a prendere in considerazione solamente la tv.
Il rapporto bambino – tv – famiglia è un problema che è stato sottoposto a studio e ricerche in ambito psicopedagogico soprattutto a partire dagli inizi degli anni ’70. Ciò è stato determinato dal fatto che ci si è accorti che l’uso della televisione ha iniziato a portare delle conseguenze, spesso negative, nella vita delle persone adulte e dei minori, soprattutto perché sovente l’uso si è trasformato in abuso.
La televisione è un mezzo e in quanto tale non è né buono né cattivo, tutto dipende dall’uso che noi ne facciamo: ciò comporta una responsabilità nel suo uso in particolare se siamo educatori di minori.
Sono molteplici gli usi della tv in famiglia e altrettanti possono essere gli effetti positivi che possono derivare da un suo impiego “saggio”. Tuttavia è importante denunciare, in prospettiva pedagogica, alcuni rischi che ci possono essere nell’utilizzo della tv. Molte ricerche statistiche effettuate confermano alcuni trend negativi: per es. il 63% delle famiglie in provincia di PD possiede più di 2 televisioni. Questo semplice dato richiama subito l’attenzione su una inclinazione non certo positiva, il tasso di affollamento pro capite di televisori è piuttosto alto e ciò può significare un pericolo di frantumazione in entità separate della famiglia nel suo interno e quindi un “impallidirsi” delle relazioni intra-famigliari. Tanti televisori possono tradursi in un uso individuale degli apparecchi e quindi, per i familiari, un trovarsi da soli a casa davanti allo schermo. Spesso tale atteggiamento è un pretesto per evitare possibili conflitti con gli altri membri della famiglia, per esempio nella scelta del programma da vedere in quanto ciascuno può avere gusti e preferenze diverse nella scelta dei programmi. Da un punto di vista comunicativo e pedagogico è meglio il confronto e la discussione piuttosto che l’uso individualistico del mezzo.

Altri dati inerenti a ricerche effettuate sul “consumo di tv da parte dei bambini” indicano che i bambini stanno più ore davanti alla tv che a scuola: si guarda la tv già la mattina presto, facendo colazione, fino alla sera tardi, di notte. In bibliografia ormai si parla di televisiomania, alluvione televisiva, droga televisiva, i bambini con le antenne in testa, ecc.
Il fenomeno è rilevante sia quantitativamente che qualitativamente le cui cause sono molteplici. Prime fra tutte l’influenza accresciuta del mezzo televisivo che da bianco e nero è divenuto a colori e tecnologicamente avanzato, molti canali a disposizione che inducono lo spettatore per esempio allo zapping, una frammentazione che spesso  può ripercuotersi su una frammentazione del nostro io, programmazione a tutte le ore – 24 ore la giorno. Un’altra causa importante che rende la tv pericolosamente negativa è la debolezza pedagogica della famiglia perché si fa spesso un uso distorto della tv, per esempio utilizzandola quale baby sitter. In questo caso la tv sostituisce la presenza dei genitori, degli gli adulti, che hanno il compito educativo di accompagnare i bambini nel processo di crescita: il processo di apprendimento nel bambino non avviene più esclusivamente nell’apprendere dai genitori ma anche da quanto la tv, con i suoi programmi, insegna in termini di modelli di comportamento. La tv diviene una “magica” soluzione di cui i genitori possono facilmente disporre, perché la tv accesa blocca i bambini. Il compito dell’educatore viene abdicato a favore della tv e ciò comporta il fatto che vengono inserite, nel percorso educativo del bambino, questioni e modelli inadatti ed inopportuni alla sua età.
I bambini preferiscono altro, non la tv: spesso gli educatori scordano che ai bambini piace giocare con gli amici, leggere storie, uscire con i genitori, e non starsene per forza ipnotizzati davanti allo schermo. Alcune volte è vero che per i genitori la tv è una scelta obbligata perché frequentemente si trovano da soli davanti alle esigenze educative dei figli: spesso manca la presenza fisica e psicologica di adulti capaci di accompagnamento dei genitori nell’educazione dei figli. Solitudine priva di alternativa che porta alla scelta obbligata all’uso della tv favorendo ancora di più la solitudine educativa che innesca l’inizio di un circolo vizioso solitario senza uscita.
La debolezza della famiglia in termini educativi viene spesso espressa dal cattivo esempio degli adulti che danno ai bambini: gli stessi adulti abusano spesso della tv, per esempio è una delle prime cose che vengono accese appena tornati a casa o è un qualcosa che rimane sempre accesa durante i pasti e le attività di cucina. Con la tv accesa non si comunica o meglio, si comunica agli altri componenti della famiglia che non si vuole comunicare. E’ così che i figli, bisognosi di identificarsi con modelli adulti, acquisiscono modelli deviati di comportamento che li porteranno a copiare ciò che hanno imparato e che in questo caso sarà una dipendenza dal mezzo televisivo.
Un’altra causa di abuso della tv è la mancanza di alternative nel tessuto socio-culturale-territoriale in cui le famiglie vivono: mancano spazi verdi, parchi gioco e luoghi di socialità provocando la scelta obbligata della tv in casa, soprattutto quale “attività” per i bambini. In questo senso è necessario un miglioramento di qualità di vita sociale del nostro territorio ed è ciò che ciascuno di noi deve sforzarsi di chiedere alla propria rappresentanza politica ed istituzionale.
Alla luce di tutto questo, forse potrebbe essere una saggia proposta scegliere di non avere la tv in casa in modo da evitare che possa divenire la “persona” più importante della famiglia!

Passando al tema degli effetti dell’uso indiscriminato della tv è necessario premettere due cose: con la tv la comunicazione è unidirezionale, cioè la tv è l’emittente mentre lo spettatore è il ricevente. Ciò è anche aggravato dal fatto che i programmi televisivi sono prodotti per una massa informe di spettatori, completamente spersonalizzata. Tale evidenza porta alla consapevolezza che la comunicazione televisiva utilizza tecniche di comunicazione di grande efficacia per far sì che la massa dei fruitori esprima delle preferenze e quindi contribuisca a fare audience utilizzando forme di persuasione spesso occulta che trasforma lo spettatore in un oggetto. L’equazione spettatore=oggetto è del tutto veritiera.
Inoltre è bene sempre tener presente che il bambino non ha una capacità critica reattiva, non sa discernere ciò che è buono e cattivo, giusto e sbagliato, fantasia e realtà, è quindi sottoposto a un bombardamento televisivo di messaggi e immagini spesso contradditori che lo mette nell’incapacità di una sintesi: egli rimane così inchiodato davanti allo schermo provocando una paralisi cognitiva.

Affrontiamo quindi i possibili effetti negativi dell’uso della tv elencandoli punto per punto:
dipendenza. Indipendentemente dai contenuti quando un bambino o un adulto restano davanti allo schermo ne divengono a poco a poco vittima, schiavo provocando un bisogno che lo rende dipendente, come quando si ha bisogno dell’assunzione costante di una sostanza.
passività. Il bambino stando seduto davanti alla tv diventa un ricettore passivo: il telecomando è solo uno strumento che dà l’illusione del potere sul mezzo e che al contrario ipnotizza ancora di più. Il bambino si abitua a essere spettatore passivo rischiando poi di assumere lo stesso atteggiamento da spettatore passivo anche nella vita.
criticità. Si può rischiare di divenire acritici nella vita, credendo a tutto ciò che viene trasmesso in televisione… “lo ha detto la tv allora è vero”.
assunzione di modelli di comportamento.
fascino dello spot. In media, in un anno, un bambino vede qualcosa come 10.000 spot televisivi che rappresentano una continua rievocazione inconscia che lo spettatore è colui il quale deve comprare qualcosa. Con questo bombardamento di messaggi di acquisto può passare forte il messaggio che la vita è materialismo, è consumismo, che è fatta di compravendite e che esse siano le cose più importanti. In quest’ottica l’uomo diviene importante nella misura in cui è capace di acquistare e consumare.
violenza. La violenza, per molti versi, la si impara vedendola. Un bambino assiste a molteplici atti di violenza guardando la tv, 8 programmi su 10 contengono esperienze di violenza: a 18 anni un ragazzo ha ormai visto in media 13.000 assassini.
scomparsa del gioco. Il bambino è gioco, l’equazione bambino=gioco è indispensabile a una sana crescita psicofisica del piccolo, la vita dell’infanzia si esprime attraverso la funzione ludica dove spontaneità, creatività, fantasia devono esprimersi… il bambino deve immaginare e creare con la fantasia. L’assenza di gioco, lo stare davanti alla tv, è inibizione del modo di essere naturale del bambino che può creare frustrazioni che hanno la forza di essere l’inizio di patologie come depressioni infantili.

Non dovremmo mai dimenticare, citando Leibniz, che “scienza senza coscienza è rovina dell’anima”. Ricordiamoci sempre che il bambino ha bisogno di correre, uscire, giocare, stare con i genitori, partecipare alla loro vita invece di essere un “oggetto” che guarda passivamente.

Intervento del prof Giuseppe Milan contenuto nel DVD dal titolo "Famiglia e Società, nuovi percorsi nell’educare"
E' possibile chiedere copia del DVD a Famiglie Nuove
via Isonzo, 64 - 00046 Grottaferrata (RM)
tel. +39 06 9411565 fax +39 06 9411614
e-mail: famiglienuove@focolare.org

sabato 26 giugno 2010

Famiglia e societa' - L'educazione nei primi anni di vita


Durante una conversazione con il dott. Ezio Aceti, psicologo, si è parlato dell'educazione dei figli nei primi anni di vita.
Secondo il dott. Aceti, la cosa più importante da tenere presente quando si affronta il tema della comunicazione con il bambino, è quello di avere una comunicazione empatica. In una comunicazione empatica l'interlocutore si astiene dall'analizzare e dal fornire direttive e rinuncia a giudicare positivi o negativi i comportamenti dell'altro: in una comunicazione empatica l'uno crea in sé il vuoto, per ascoltare l'altro incondizionatamente e senza gabbie. Una volta raggiunto questo obiettivo tutto è fatto! Ma come si fa ad avere una comunicazione empatica con il bambino? C'è una cosa molto semplice da cui è impossibile prescindere per aggiungere questo obiettivo: bisogna ascoltare, saper ascoltare. Ascoltare è una delle cose più difficili, perché si potrebbe stare in silenzio tutta la sera con una persona, con un bambino, ma non ascoltare nulla perché impegnati con il pensiero a divagare, a pensare ad altro senza essere lì presenti, concentrati su chi parla. Per ascoltare è necessario essere nel momento presente disponibili per l'altro.
Un altro tema che Aceti affronta è la tematica che affronta l'avere "dentro" il bambino da parte dei genitori: per poter dire "ti voglio davvero bene" al bambino, i genitori devono poter dire di conoscerlo, ma non una conoscenza qualunque, ma una profonda, intima, sapere come egli è, come funziona, chi è. Per poter avere questa conoscenza è utile dividere la personalità del bambino in tre parti e cercare di analizzare come queste si sviluppano nei primi anni di vita: l'intelligenza, l'affettività e la socialità. Queste tre "parti" del bambino vanno esaminate distinguendo i periodi del suo sviluppo: nei primi 2 anni di vita, durante la scuola materna e poi alla scuola elementare, fino ad arrivare cioè alle soglie dell'adolescenza. Quando i genitori parlano dei comportamenti dei bambini fino ai 5-6 anni generalmente commettono un errore comune: proiettare sui comportamenti del bambino bisogni e necessità di loro stessi. Una tipica frase pronunciata dalla mamma potrebbe essere: "Il mio bambino ha fatto questo ma in realtà voleva dire quest'altro". Per conoscere un bambino fino ai 5-6 anni è necessario considerarlo come un "pianeta sconosciuto". Il bambino non è un piccolo adulto!! La conoscenza quindi passa attraverso una necessaria considerazione del bambino come un qualcosa di sconosciuto e che non risponde ai canoni adulti del comportamento.
La socialità del bambino fino ai 2 anni.
Aceti affronta l'aspetto della socialità del bambino fino ai 2 anni iniziando dai primordi della sua vita, quando era feto. Il feto durante il suo sviluppo nel grembo della mamma non vive alcuna e non sviluppa alcuna socialità, in questo periodo iniziale della sua vita il feto vive della stessa vita della mamma. Poi l'esperienza del parto e della nascita segnano un momento fondamentale quando due grandi dolori si presentano nella sua esistenza e nella vita della mamma: il dolore cosciente delle doglie per la mamma e il dolore inconscio del bambino, non percepito. Per il bambino il dolore che prova è coinvolgente, il bambino lo sente in modo molto forte. Appena nato il bambino piange e ciò potrebbe essere dovuto, come riportato da numerosi testi scientifici, da due cause: una prima potrebbe essere l'aria che entra nei polmoni per la prima volta e che provocherebbe un forte bruciore e la seconda lo schiacciamento della testa durante il parto che procurerebbe un forte dolore a livello tempiale. Dopo il parto e fino al secondo mese di vita il bambino crede di essere ancora tutt'uno con la madre, con il suo seno che gli dà il nutrimento. Attorno al secondo mese il bambino fa una scoperta straordinaria: la prima tappa sociale del suo sviluppo, scopre che lui è una cosa e il seno della madre è un'altra cosa...
Riportando qualche spunto che il dott. Aceti presenta nel suo tema "l'educazione dei figli nei primi anni di vita" vogliamo dare degli input che voi, genitori, potete fare propri ed approfondirli per conoscere ed affrontare i temi strettamente legati al primo sviluppo del bambino e per riuscire, con responsabilità e cognizione di causa, aiutarlo in un sano sviluppo caratteriale e umano.
Questa prima parte dell'intervento di Aceti è disponibile in questo video:

venerdì 28 maggio 2010

L'Educazione - terza parte




La scuola e l'adolescenza
Concludiamo con con questo terzo articolo la trattazione del tema dell'educazione come proposto dell'Abate Sebastian Kneipp nel libro dal titolo "La cura Kneipp" pubblicato da "La casa verde". Così Kneipp tratta il tema della famiglia, della scuola e dell'adolescenza...
La prima scuola: la famiglia
Per il parroco Kneipp: «Tutta la vita è una scuola; giorno per giorno ognuno va a questa scuola, giorno per giorno ciascuno può imparare ed esercitarsi e tutto ciò dura fino alla morte. Felice colui che è capace e si sforza di fare proprio ciò che è utile, salutare e necessario».
L'uomo nella vita può apprendere il bene o il male: felice colui che segue solo la scuola del bene.
La prima scuola è la casa paterna.
Il bambino infatti è in tutto simile a un seme, non si vede a che grossa pianta può dare origine. Come il corpo di un bambino è minuscolo in confronto a quello di un adulto, così è piccola anche la sua mente in confronto a quella di un uomo; tuttavia appena incomincia a parlare egli non si accontenta di osservare la realtà, ma inizia ben presto a porre domande riguardo a essa.
I suoi primi maestri sono i genitori, a cui lo sguardo dei piccoli è sempre rivolto. I genitori non devono dunque accontentarsi di istruire il bambino con le parole, ma devono insegnare con l'esempio qual è la via da seguire e come ci si deve comportare. È istintivo per i bambini cercare di assomigliare ai genitori, dai quali essi apprenderanno facilmente a distinguere il bene dal male, a credere nei valori universali e nell'attività lavorativa che allontana la noia, i vizi e la miseria. L'insegnamento dei genitori, infatti, è il più caro e penetra in profondità nei giovani cuori.
Dopo aver insegnato ai figli a conoscere Dio e ad adeguarsi alle sue leggi, i genitori devono istruire i bambini riguardo al valore del lavoro. È cosa innata del resto nei piccoli il voler lavorare; quando vedono i genitori impegnati in qualche compito i bambini desiderano istintivamente imitarli. Da qui l'enorme importanza dell'esempio. Non si deve naturalmente pretendere che i bambini nei primi anni di vita si assumano responsabilità eccessive, in quanto fatiche protratte e difficili li intristirebbero ed essi non potrebbero crescere sani e robusti.
Occorrerà inoltre che i genitori insegnino ai propri figli la necessità di sopportare con coraggio le sofferenze della vita, qualora non sia possibile allontanarle, e anche in questo compito riveste grande importanza l'esempio, l'atteggiamento che gli adulti, assumono di fronte alle inevitabili difficoltà della vita.
I genitori hanno il compito di vegliare sui propri figli, senza opprimerli, e di evitare, per quanto possibile, che vengano in contatto con persone che potrebbero avere verso di loro comportamenti antieducativi.
Una buona educazione darà sicuramente frutti gioiosi per i genitori come per i figli, porterà gioie e consolazioni; mentre un'educazione mal riuscita genererà giovani scontenti di sé, che procureranno dispiaceri anche profondi ai genitori, ai quali amareggeranno e addirittura abbrevieranno la vita.
La seconda scuola
I bambini prestano attenzione per un tempo breve, poi si annoiano, ma il loro interesse viene prontamente destato da un nuovo argomento. Per natura infatti i giovani sono avidi di sapere, vogliono imparare e imparano con gioia, ma quando mostrano con il loro comportamento che non riescono a seguire la lezione è inutile insistere nell'impartirla: sarebbe tempo sprecato.
Durante il periodo scolastico l'educazione a casa deve naturalmente proseguire: ai ragazzi andranno richiesti piccoli doveri, non troppo gravosi, che si imparano in tenera età o mai più. I ragazzi di questa età non devono solo assistere al lavoro dei genitori, devono anche impararlo e seguirlo.
A circa sei anni incomincia per i bambini la seconda scuola, ove vengono istruiti in quegli argomenti la cui conoscenza è richiesta nella vita. La prima e importantissima educazione che viene impartita a casa deve solo essere continuata ed estesa da questa seconda scuola, che dovrebbe condurre il ragazzo a un livello di cultura tale per cui egli sia in grado da solo di continuare a istruirsi e coltivare i suoi interessi. Ciò non avverrà se si pretenderà in ambito scolastico più di quanto gli allievi sono in grado di dare.
Una buona scuola non dovrebbe richiedere uno sforzo eccessivo ai ragazzi, non dovrebbe essere vissuta come un peso, dovrebbe al contrario entusiasmare e costituire un momento di felicità. Solo in tal modo, sostiene il parroco Kneipp, il desiderio di conoscenza verrà accresciuto.
Coloro a cui viene richiesto uno sforzo troppo gravoso, infatti, desiderano solo disfarsi del peso che sopportano e rifiutano colui che lo impone.
Spesso i programmi scolastici sono troppo vasti e richiedono una costanza nell'applicazione che in età giovanile è facilmente assente. Per i ragazzi è già una fatica resistere per alcune ore seduti e dopo un po'di tempo non sono più in grado di prestare attenzione alle spiegazioni: a questo punto ogni insegnamento è vano e ciò che comprendono è solo la grande noia.
La scuola degli adolescenti
Gli anni della fanciullezza somigliano ai bei giorni di primavera che ben presto scompaiono; segue un'altra epoca che porta nuovi doveri. Negli anni dell'adolescenza l'esperienza degli adulti deve venire in aiuto ai giovani che fino a ora erano timidi e stavano volentieri vicino ai genitori, mentre ora vogliono aprirsi verso il mondo, vedere tutto, udire tutto e avere relazioni più estese.
È questo un momento delicato in cui i genitori devono stare particolarmente vicini ai figli, non per opprimerli ma per proteggerli. Un bravo genitore deve badare con particolare cura in questo periodo alle relazioni che i figli intrattengono, in quanto è questo il momento in cui s'imposta la propria esistenza, si decide se scegliere la via dell'umiltà o quella della superbia, se prediligere la semplicità oppure la vanità, le virtù o i vizi.
Come i giovani alberi che si piantano in giardino per crescere bene hanno almeno inizialmente necessità di un fermo sostegno e di corrette potature di formazione, così i giovani devono trovare nei genitori il loro sostegno. Come gli alberi vengono rovinati dal vento, se viene a mancare loro il sostegno, così i giovani si perdono facilmente se viene mancare loro una guida sicura.
Questi anni giovanili infatti sono pericolosi almeno quanto sono belli e occorre che i genitori siano vigili e non si facciano travolgere dall'affetto ma riescano a vedere la realtà. È importante prevenire comportamenti sbagliati e accorgersi immediatamente se un giovane imbocca una cattiva strada, perché in seguito è ben difficile riuscire ad aiutare chi si è messo nei guai; infatti, quando la via imboccata è quella sbagliata i ragazzi in breve tempo divengono ostinati e insensibili a qualunque consiglio ed è quindi estremamente difficile prestare loro aiuto.
In ogni famiglia valida si insegnerà ai ragazzi ad apprezzare un tipo di vita semplice, a ricercare solo ciò che è utile e necessario, lasciando da parte la vanità e il lusso.
Si devono impartire prima gli insegnamenti essenziali: non vanno mai trascurati l'amore per la pulizia, la semplicità di vita, la moderazione e la parsimonia, in quanto chi è stato allevato secondo questi principi saprà trarsi d'impiccio in qualunque situazione, adattandosi a quello che la vita richiede.
La religione inoltre, se profondamente impressa nell'animo, sarà una forte consolazione in tutti i momenti cupi dell'esistenza.

lunedì 3 maggio 2010

L'autostima

Come far crescere l'autostima in famiglia
L'autostima è l'idea, l'immagine che ciascuno ha di se stesso. Ogni persona la costruisce negli anni, fin da quando è bambino con ciò che i genitori, i nonni, i maestri e compagni dicono di noi.
Per cercare di chiarire cosa significa autostima, partendo dall'etimologia, troviamo che il verbo stimare, derivante dal latino aestimare, significa valutare, nella duplice accezione di "determinare il valore di" e "avere un'opinione di". Da questo punto di vista il concetto di autostima racchiude in sé il come ciascuno vede sé stesso, come si giudica e che tipo di valore si attribuisce.
Penso che a tanti di noi sia capitato di fare dei propositi per la giornata e spesso accade di disattenderli ricadendo negli stessi errori che il nostro carattere ci porta a commettere. Quale soluzione quindi?
Gli psicologi sono concordi nell'affermare che per riuscire veramente ad amare è necessaria prima di tutto una "capacità di stare in piedi da soli", in ogni situazione, senza appoggiarsi ad alcuno. Bisogna essere una persona già completa in sé, autonoma. Ciò non significa certo che non abbiamo bisogno degli altri in quanto siamo esseri relazionali che crescono, vivono e maturano attraverso le relazioni. Spesso però ci capita di amare con secondi fini, soprattutto con lo scopo di essere riamati. L'amore invece dev'essere gratuito e disinteressato. Se saremo pronti a prendere sempre l'iniziativa, se riusciremo a perdonare e ricominciare subito, amare sarà sempre di più un gesto gratuito e sempre più spontaneo.
"Amare in questo modo non è facile. Tutto dipende dal tipo di stima che abbiamo di noi stessi, dal valore che attribuiamo alla nostra persona, dal grado di sicurezza che possediamo. Se è basso, tenderemo a difenderci anziché a donarci, ad avere bisogno dell'altro per la nostra sicurezza e quindi ad amarlo non per ciò che è, ma per ciò che è capace di darci. Più la persona ha una propria identità, più è capace di donarsi in modo gratuito; più ha fiducia più è sé stessa, più ha fiducia nelle capacità dell'altro. Solo da una vera umiltà può fiorire la consapevolezza del valore della nostra persona."
"La stima di sé si struttura in gran parte nei primi anni della vita; dipende molto se in quegli anni ci siamo sentiti amati dai genitori per ciò che eravamo e non per ciò che essi si aspettavano da noi. A volte, purtroppo, l'educazione è basata sul principio: «Se mi ubbidisci e se vai bene a scuola, ti voglio più bene». Invece un padre che sostiene il figlio nel perseguimento dei suoi obiettivi, lo aiuta a costruire la sua sicurezza, gli regala forza ed energia. Anche quando i genitori sono costretti a dare una punizione, dovrebbe sempre venir fuori che, nonostante tutto, l'amore per i figli non subisce variazioni. Come l'amore di Dio, che mentre ci accoglie per ciò che siamo, ci spinge a non fermarci e andare sempre avanti."
E' importante quindi come si trattano i figli soprattutto nei primi anni di vita, ciò determinerà la loro autostima e maturazione psicologica. Per crescere un figlio con una buona autostima è necessario prima di tutto che entrambi i genitori la abbiano maturato dentro di sé.
"Amare costa fatica: un saluto mancato, una scarsa delicatezza bastano a mandarci giù, un'idea diversa dalla nostra fa traballare la nostra sicurezza e ci sentiamo rifiutati. Un rimprovero ferisce il nostro orgoglio e facciamo fatica a ricominciare. Qualunque sia la situazione, bisogna crescere nell'autostima, specie quando avvertiamo che essa è un po' traballante e ha bisogno di puntelli, stimoli, apprezzamenti ed elogi. Anche in coppia. Non è necessario, tra l'altro, fare sempre tutto insieme; può essere a volte importante fare attività diverse, se queste ci gratificano e aiutano a superare le tensioni quotidiane. Un incontro, una meditazione, un libro, un'attività sportiva, tutto può aiutare a crescere, ad acquistare sicurezza e, di conseguenza, ad amare meglio. A volte basta poco, come, per esempio, valorizzare il positivo: «Come hai parlato bene stamattina, che bel vestito hai comprato, come sei brava a riordinare la casa!». Specialmente nella coppia. Quando ci viene la tentazione di vedere solo i difetti dell'altro, facciamo subito l'esercizio di elencare anche i suoi lati positivi. Se non li vediamo, è certamente colpa nostra, perché non esiste persona al mondo che non abbia almeno un lato positivo. È importante imparare a non essere avari di complimenti e conferme. Questo vale sempre, in qualsiasi tipo di rapporto, da quello familiare a quello lavorativo. Non cominciare mai dal negativo, ma sempre da quel poco o molto di positivo che riscontriamo nell'altro."
Solamente facendo così si potranno avere genitori responsabili e maturi che saranno in grado di crescere uomini veri.
Per un approfondimento Città Nuova n.7/2010 pp. 52-54

giovedì 15 aprile 2010

L'Educazione - seconda parte


I doveri dei genitori
Riportiamo la seconda parte dell'articolo iniziato il mese scorso, tratto dal libro "La cura di Kneipp".
«Tutto quello che è giovane è allegro e vivace, gli uccelli nell'aria come gli animali nei campi. Anche nei bambini l'allegria è innata ed essi saltellano volentieri. La vivacità infantile è la prova più chiara della salute dei bambini.» Queste le osservazioni di Sebastian Kneipp, che continua osservando che finché sono molto piccoli i bambini si stancano presto, in quanto le loro forze si esauriscono velocemente, ma dopo un breve riposo torna in loro di nuovo il vigore.
Egli proclama: «Nessuna cosa è tanto necessaria alla gioventù come il moto e nessuna reca ai giovani maggior danno del rimanere seduti troppo a lungo».
Ai bambini va dunque concesso di trascorrere molto tempo all'aperto; essi, non appena imparano a fare qualche passo, corrono presto alla porta per uscire, tanto in estate quanto in inverno, e quando vengono ricondotti a casa non mancano i pianti. .
Aria libera e movimento sono un abbinamento ottimo; estremamente salutare, ma ogni gioco deve avvenire sotto la sorveglianza di un adulto, perché i pericoli sono in agguato quando la fantasia non ha controlli. I bambini infatti si interessano a tutto ciò che li circonda, anche se, di solito, perdono presto l'entusiasmo e vanno in cerca di novità.
Il movimento all'aperto risulta sano perché favorisce l'appetito, il buonumore e il corretto sviluppo fisico e mentale; i piccoli, dice Kneipp, non sono nati per crescere in ambienti chiusi, ove si intristiscono e perdono allegria e vigore. Il miglior regalo che si può fare loro è farli vivere in una casa che disponga di un giardino soleggiato, ove possano correre fino a stancarsi.
I giochi infantili vanno considerati come un esercizio utile a predisporre il corpo al futuro lavoro e a renderlo più resistente.
E davvero misero lo stato di quei fanciulli che devono stare rinchiusi in una stanza perché non hanno un cortile o un prato ove possano correre e saltare, respirando nel contempo dell'aria fresca e pura. Essi vanno commiserati, perché si spengono a ogni gioia della vita, diventano spesso nervosi e non possiedono lo stato d'animo allegro e spensierato che è tipico della fanciullezza.
Le famiglie che abitano in città, se vedono i propri figli intristire, mangiare poco, giocare meno, essere insomma poco vitali, anziché chiamare il medico perché prescriva ogni volta una medicina diversa dovrebbero semplicemente portare per qualche mese i bambini in campagna e quivi farli vivere liberamente, il più possibile all'aperto, ove possano camminare scalzi, bagnarsi nei ruscelli e bere frequentemente piccole quantità di latte. Dopo tre o quattro mesi si meraviglierebbero dell'incredibile cambiamento avvenuto.
Chi non ha questa possibilità dovrebbe nutrire i propri figli seguendo le regole esposte, evitare che cadano preda della mollezza, dimenticare gli alcolici e i cibi speziati, arieggiare ogni giorno accuratamente l'abitazione e offrire ai ragazzi l'opportunità di fare dei bagni interi o dei mezzi bagni.
Anche la ginnastica può risultare molto utile per mantenere e aumentare le forze, ma gli esercizi devono essere commisurati alle reali potenzialità, per non risultare nocivi alla salute.
Kneipp sostiene che svolgere un lavoro manuale all'aperto, o compiere escursioni a piedi, può essere una valida alternativa alla ginnastica. Il camminare di buon passo viene purtroppo molto trascurato, invece andrebbe rivalutato, in quanto è un ottimo esercizio in grado di elevare lo spirito mentre rinvigorisce il corpo.
Non dimentichiamo infine l'esercizio fisico svolto in acqua: camminando a piedi nudi, se si è deboli, o nuotando, se si è robusti, ci si rinvigorisce e si aumenta il calore naturale del corpo.
Di grande importanza per mantenersi in buona forma fisica è anche il godere di ore di riposo sufficienti: chi lavora a tarda sera lo fa a suo danno.
Perché corpo e mente possano godere i vantaggi di un buon sonno è bene attenersi a semplici norme come l'andare a riposare sempre alla stessa ora e il dormire in una stanza silenziosa, bene arieggiata e poco riscaldata. .
È importante inoltre che le madri si assicurino che i loro figlioli respirino aria pulita di notte come di giorno: l'aria degli ambienti in cui si vive va cambiata quotidianamente, altrimenti si rischia che i muri trattengano umidità. Alcuni bambini vengono rovinati dai genitori che li nutrono in modo inadeguato, altri perché sono resi deboli dalle eccessive mollezze, altri ancora perché hanno genitori che dimenticano che i piccoli vanno vestiti con grande semplicità, in modo adeguato alla stagione.
Quando un tempo i bambini indossavano solo lo stretto necessario, non temevano il freddo dell'inverno o il caldo dell'estate. Non va mai dimenticato che il corpo va indurito e che ciò si ottiene esponendolo all'aria.
È bello dunque lasciar scoprire i bambini, quando lo desiderano, e non coprirli mai troppo.
Ecco che cosa pensa il parroco Kneipp riguardo all'abbigliamento dei più piccoli: «Lasciateli andare come essi desiderano, se sentono freddo state sicuri che trovano subito una stanza ove riscaldarsi.
Lasciateli camminare scalzi sull'erba, almeno il mattino e la sera, o, se questo non è possibile, per esempio nella brutta stagione, fateli camminare scalzi sul pavimento; lasciate che siano essi a chiedervi le calze e le scarpe: osserverete quanto si trovano bene scalzi».
In questo modo, e tramite i bagni, il corpo verrà temprato e diverrà forte e robusto; sarà così pronto a sopportare il freddo dell'inverno come il calore estivo.
«Non vi è per la gioventù maggior felicità d'una perfetta salute e con questa si eviteranno molte miserie della vecchiaia.».

sabato 3 aprile 2010

La separazione nel matrimonio: soluzione o ripiego?


Carissimi lettori del Blog Azur,
in questo intervento vi proponiamo un tema che riguarda, non solo i bambini, ma la coppia nel suo legame matrimoniale. Lo spunto viene dalla domanda di una lettrice della rivista Città Nuova che in una sua lettera così scrive alla redazione:"Io e mio marito discutiamo spesso davanti ai nostri figli piccoli e tante volte non riusciamo a capirci. Ognuno dei due resta sulle sue e poi si sfoga con parenti e amici. Più di una collega mi ha detto: "Ma chi te lo fa fare di sopportarlo? Se ti separi i figli soffrono meno e ci guadagni pure economicamente!" Sono combattuta tra tanti sentimenti."
La risposta è di Letizia Grita Magri.
Nella mentalità corrente, affrontare le difficoltà e gli imprevisti della vita di coppia è una battaglia persa. Chi oggi è coniugato o chi si prepara al matrimonio percepisce la possibilità di separazione e di divorzio come una conquista sociale, un sacrosanto diritto individuale. Ci sono situazioni gravi di conflitto familiare che suggeriscono rimedi estremi; ma quello che è svuotato di senso è il valore del legame tra due persone che almeno una volta si sono scelte e magari hanno dato la vita ad altre creature. Si dice: che senso ha continuare a litigare ogni mattina per le solite incomprensioni? E perché dovrei continuare ad aspettare che si decida a condividere gli impegni della casa e dei figli? É se lui (o lei) non mi piace più, perché non accettare le proposte di quel collega (o quella collega) che mi stima tanto?
È la ricerca assoluta della propria realizzazione, senza l'ostacolo delle aspettative e delle pretese di nessun altro; come se la natura umana, orientata alla relazione, non si realizzasse proprio nella costruzione di un "noi", che si esprime prima di tutto nel rapporto tra marito e moglie. Il ridimensionamento delle proprie ragioni, la valutazione ragionevole di eventuali cause oggettive (lavoro?) o soggettive (salute?), il realismo di fronte all'infatuazione per quell'altro/a, l'aiuto di persone o coppie esperte e competenti, possono essere passi necessari a recuperare stima reciproca e voglia di ricominciare.
Si dice anche: per i figli è meglio una buona separazione che un cattivo matrimonio. Purtroppo l'esperienza professionale di psicologi e matrimonialisti dimostra che la ferita della separazione dei genitori produce gravi danni.
Mi domando piuttosto: se i figli sperimentano che, nonostante le incomprensioni di cui sono testimoni, è ancora possibile il dialogo, il rispetto, l'ascolto delle ragioni dell'altro, non sarà che maturano una certa speranza che c'è un futuro da costruire? E poi, non illudiamoci: capita in tutte le migliori famiglie il momento di crisi, di delusione, di incomunicabilità. Mi racconta Marina, sposata da trent'anni: "Quando mio marito è andato in pensione, stava a casa tutto il giorno e mi sono trovata a litigare con lui per l'uso dell'unico computer di casa. "Ma devi proprio starci tutto questo tempo?" gli dicevo. Ho dovuto fare uno sforzo per smettere di giudicarlo. Alla fine abbiamo affrontato e risolto insieme il problema. Da allora condividiamo anche l'impegno come volontari in una onlus".
Quando nella coppia si cerca la via del dialogo, anche se lì per lì sembra di rimetterci, alla fine si scopre che tutti ci hanno guadagnato.
Tratto da Città Nuova n. 22 - 25.11.2008 www.cittanuova.it

venerdì 26 marzo 2010

L'Educazione - prima parte


I doveri dei genitori
Riportiamo un'interessante estratto dal libro "La cura Kneipp" a cura dell'Abate Sebastian Kneipp la cui prima edizione risale al primo ottobre 1886.
Il capitolo presentato si intitola "l'educazione".
Chi non sa che un buon campo produce buoni frutti e da un cattivo campo non ci si devono aspettare altro che frutti cattivi? La stessa regola vale anche per i genitori: se questi sono sani e vigorosi si può prevedere lo stesso per i loro figli, mentre se essi sono deboli e intristiti, per le più svariate cause, anche i loro nati saranno probabilmente malaticci e deboli.
I figli non portano solamente impressi nel volto i tratti dei genitori, ma somigliano loro anche nell'animo e ne ereditano le buone e le cattive qualità. Una madre che vive in modo corretto, che avverte la presenza di Dio in ogni momento della sua esistenza e ne segue i comandamenti è comprensibile che si attenda di ritrovare nei figli i suoi stessi sentimenti: i figli di norma ereditano infatti le buone come le cattive qualità dei genitori.
Sebastian Kneipp raccomanda dunque ai genitori di comportarsi in modo responsabile, di sviluppare ogni virtù, e di non lasciarsi fuorviare da nulla, né sopraffare da nessuna passione insana, affinché sia più facile per i figli individuare la via da seguire.
Il primo dovere pratico che ogni genitore ha nei confronti dei propri figli consiste nell'assicurare loro un'adeguata nutrizione.
IL LATTE MATERNO
Il latte materno è il primo insostituibile alimento di cui ogni neonato ha bisogno. Da esso il bambino trae tutte le sostanze che gli sono necessarie nei primi mesi di vita, e ogni madre deve rendersi conto che allattare i propri piccoli è un dovere importantissimo che non può venir tralasciato per motivi vani. Nei casi in cui dei problemi di salute impediscano l'allattamento al seno sarà necessario ricorrere al parere del medico, per trovare di volta in volta la soluzione più adeguata.
Di solito comunque i problemi alimentari incominciano solo quando giunge il momento dello svezzamento: è allora che ci si chiede quali sono gli alimenti più indicati ad aiutare i piccoli nella crescita.
LO SVEZZAMENTO
La risposta di Kneipp è chiara: i cibi preferibili sono i più semplici e sani, i meno raffinati, i più digeribili. Ottimi alimenti sono il caffè di ghiande e il caffè di malto, a cui si può unire il latte: sono infatti cibi economici e sani, che fanno prosperare e sono adatti anche a bambini molto piccoli.
Spesso i poveri nutrono meglio dei ricchi i bambini, perché scelgono cibi più semplici e meno raffinati. Nell'alimentazione dei bambini sono da scegliere alimenti nutrienti e facili da digerire, quali il latte, le zuppe di pane, le farinate, le minestre di patate, mentre sono evitare i cibi che eccitano o riscaldano.
Il parroco Kneipp è convinto che latte e farinacei siano i cibi migliori per i bambini, mentre guarda con sospetto la carne. Egli approva anche l'abitudine di nutrire i fanciulli con le farine integrali, e non teme che i cibi che ne derivano siano troppo rozzi e ordinari.
NIENTE ALCOLICI E POCO CAFFE
Reputa naturalmente che siano da abolire per i giovani tutti gli alcolici, mentre il normale caffè va limitato. Per quanto riguarda le porzioni è bene non eccedere, in quanto generalmente i bambini hanno un appetito robusto e, come si è già detto, quando affermano di aver mangiato abbastanza hanno già mangiato troppo. Quanto al fumo Kneipp ricorda che in giovane età l'assunzione di nicotina, il veleno presente nel tabacco, risulta più dannosa che in età avanzata; inoltre chi apprende a fumare in gioventù spesso contrae una vera e propria passione per il fumo.Alla cura dell'alimentazione segue quella della forma fisica; non va quindi dimenticato l'antico detto che recita: Mens sana in corpore sano.
Il corpo infatti esercita una grande influenza sullo spirito e se esso è fiacco anche lo spirito ne soffre: molte menti risultano deboli e poco sviluppate perché il corpo presenta uno sviluppo carente.
TEMPRARE IL CORPO DEI GIOVANI
È essenziale dunque abituare i giovani a irrobustire il corpo. Un ottimo mezzo per temprare l'organismo, e attutire l'eccessiva sensibilità è un veloce bagno freddo, oppure tiepido: una semplice immersione nell'acqua, della durata di uno o due secondi, da effettuare immediatamente dopo il bagno caldo.
Il parroco Kneipp, dopo aver osservato che è ormai consolidata l'abitudine, resa necessaria dall'amore per la pulizia, che i bambini facciano ogni giorno un bagno caldo, dice di non avere nulla contro una simile consuetudine, ma di temere che il bagno caldo renda molli i fanciulli. Egli invita gli adulti a fare, per circa due mesi, un bagno caldo quotidiano e a verificare su se stessi quale spossamento e debolezza essi inducano nell'organismo. Tali bagni rendono sensibili al punto di non essere più in grado di sopportare il freddo. Se dunque il bagnarsi quotidianamente nell'acqua calda risulta dannoso a un adulto, non dovrà rendere più deboli anche i bambini?
BAGNO FREDDO ANCHE PER I PIU' PICCOLI
Kneipp dice: "Non sono contrario al bagno caldo, purché non duri a lungo, né abbia una temperatura troppo alta: in tre minuti il bambino può essere pulito con l'acqua calda, poi deve iniziare l'indurimento. Appena tolto il piccolo dall'acqua calda lo si bagni con quella fredda per un paio di secondi in modo da togliergli tutto il calore superfluo. Per agire con maggior effetto si tenga presso il bagno caldo una tinozza d'acqua fredda e vi si immerga il bambino per un secondo. In tal modo si temprerà il piccolo e si allontanerà il calore in eccesso.
Certo inizialmente il bambino urlerà, ma non fa nulla; egli del resto grida anche nell'acqua calda e in breve tempo non presterà più attenzione all'acqua fredda. Un buon padre e una madre come si deve devono mostrare una certa fermezza d'azione e non lasciarsi commuovere da ogni sentimento. Se una madre giunge al punto di temere che la patria versi in pericolo se ella immerge il suo piccino nell'acqua fredda, può, nei primi giorni, mitigarne la temperatura, ma non attenda comunque troppo a lungo prima d'avvezzare il suo bambino all'acqua fresca".
Chi osserva il comportamento naturale dei fanciulli può del resto constatare che, non appena ne hanno l'occasione, si accostano all'acqua e vi sguazzano a lungo con grande piacere: vi si trovano tanto bene che a mala pena se ne distaccano. Se ciò non andasse loro a genio ne starebbero lontani. In simili casi è bene lasciarli fare: l'importante, quando tornano a casa inzuppati, è far loro indossare dei vestiti asciutti!
Un proverbio dice: «Quel che impara Giovannino lo farà anche Giovannone». I bambini che sono stati abituati da piccoli ad aver confidenza con l'acqua, e a non temerla, anche più tardi sapranno mantenersi sani temprando il loro corpo e non cadranno nelle insidie della mollezza.

sabato 20 marzo 2010

Genitori si puo' - L'esperienza di una mamma al terzo bimbo


In questo post, Chiara, una mamma che ormai e' al terzo bimbo, si confida raccontando qualcosa dei suoi tre splendidi figli e di come divenire genitori di puo'!
"Sara, quasi 2 anni.
Quante volte ho sentito dire "La terza viene su da sola!". Eh no, non è proprio così! Ogni figlio ha bisogno di te, papà e mamma, sempre, anche se in modi e tempi diversi e non importa se hai anche "altri" figli a cui pensare. Quel figlio non può risparmiarsi di chiederti tutto l'amore possibile, allo stesso modo degli altri.
Ora la piccola Sara ha conquistato un po' di autonomia, cammina, a suo modo riesce a fare le scale, parla e si fa comprendere, ma certo senza genitori non potrebbe stare.
Marta, 7 anni, secondo anno della scuola primaria, appassionata di ginnastica artistica, musica, femminilità. E' sveglia, brillante a scuola, pronta a sbalordire con le sue intuizioni. Ma è la secondogenita e sta cercando disperatamente di trovare il suo posto, che non è "essere la prima", e nemmeno "l'ultima". E' in mezzo e trovare l'equilibrio è molto difficoltoso. Le richieste di attenzione si tramutano in capricci peggiori di quelli che potrebbe fare la sorellina minore, o in pretese di autonomia ed indipendenza superiori a quelle del fratello maggiore. Mamma e papà non devono mai dimenticarlo. Il suo posto è quello più difficile da "vivere".
Francesco, 9 anni, quarto anno della scuola primaria, appassionato della vita, di tutto ciò che vede attorno a se, di basket, di figurine, di sassi e di amici. È il primogenito. Colui che ha trasformato per la prima volta la coppia di sposi in una coppia di genitori. A lui il gravoso compito di accompagnare mamma e papà nel labirinto dell'essere genitori. Il successo della sua impresa ha dato i suoi frutti.
Per comprendere cosa vuol dire diventare genitori, bisogna osservare i propri figli. I loro capricci, le loro risate, le loro litigate ci ricordano costantemente che ci sono e che hanno bisogno di noi. E' inutile nascondersi dietro le solite scuse del "Non ho tempo, ci sono cose ben più importanti che stare qui a giocare con te", un figlio ha si bisogno di mangiare, vestirsi con abiti puliti, vivere in una casa dignitosa. Ma senza amore è troppo difficile, non tutti ce la fanno.
Diventare genitori è una sfida, che richiede energie non indifferenti per poter essere affrontata con successo. Spesso tanti genitori si sentono soli in questo cammino, temono di essere gli unici a vivere determinate fatiche ed esperienze. Qualche volta si arriva ad un punto in cui non si sa più cosa fare, credendo di "averle provate tutte", ci si arrende, rischiando così di perdere credibilità nei confronti dei propri figli, ma soprattutto non riuscendo più ad essere un valido punto di riferimento per loro.
La capacità di rimettersi in discussione e soprattutto di provare a guardare le cose da un altro punto di vista sono un punto di partenza per "diventare genitori".
Si "è" genitori ogni volta che nasce un figlio, che si accoglie un bambino nella propria vita, ma diventare genitori non è così scontato ed immediato. Le difficoltà che si incontrano quotidianamente, a partire dai primi giorni di vita del bambino, ci impongono di modificare le nostre abitudini, per fare un po' di spazio a quella splendida creatura che è entrata nella nostra vita. Ed il cambiamento non sempre è facile da accettare, anche se magari lo si è sognato per tanto tempo.
In questi momenti è allora opportuno fermarsi e abbassarsi a guardare i propri figli negli occhi ricordandosi le parole di San Paolo Apostolo nella sua lettera ai Corinzi "l'amore tutto spera, tutto copre, tutto sopporta. L'amore non avrà mai fine".

mercoledì 17 marzo 2010

L'educazione dei figli: quando i genitori si separano

Una situazione di separazione in famiglia, sempre pi comune nelle famiglie italiane, nella quale il figlio vive con la mamma e il pap lo vede raramente, crea evidenti problemi educativi e sofferenze nei genitori. Spesso il pap vorrebbe affrontare questo tema con la ex-moglie ma spesso si finisce per litigare come quando ci si lasciati e tutto sembra molto difficile.
La societ in cui viviamo segnata dalla "tragedia" delle separazioni che a volte si rendono necessarie per svariati motivi. I genitori separati sono costretti a vivere situazioni di litigio, sfrustazione e sofferenza. Come risolverli alla luce del benessere educativo del figlio?
Maddalena Petrillo Triggiano ne parla in un articolo: "Tale situazione di disunit fa s che figli abbiano con i genitori un rapporto che non pu contare sulla loro unit di coppia. I bambini hanno bisogno di un codice materno e di un codice paterno: una vasta letteratura psicologica e pedagogica conferma la realt naturale della famiglia: si deve cercare dunque, anche nella realt dolorosa della separazione, di ricreare questa possibilit. In genere, uno dei due genitori compie uno sforzo maggiore dell'altro per andare incontro all'ex coniuge e riallacciare un dialogo sui figli. A volte a prezzo di un vero e proprio eroismo, tanta la resistenza che l'altro oppone. Quello dei due che si sottrae al dialogo spesso lo fa perch teme di esserne condizionato. Pu trattarsi di una superficiale smania di libert, ma pu anche essere una ricaduta nel presente di un intenso conflitto del passato."
E' indubbio che un percorso di psicoterapia dei due coniugi potrebbe dare la luce sul passato, mettendo in evidenza le dinamiche psicologiche presenti, allentando le tensioni per potersi aprire pi serenamente al dialogo. Contemporaneamente auspicabile un atteggiamento di apertura e di amore verso l'altro che, assieme a uno spirito risanato dal perdono, potrebbe ridare ai figli quella serenit e sostegno necessario alla loro sana crescita psicologica.
L'intervento di Maddalena Petrillo Triggiano tratto da Citt Nuova, n. 4 - 25.02.2008, pp 36-37

lunedì 15 febbraio 2010

Reale ed irreale.


I bambini di fronte all'irrealta' della televisione.
Ci siamo spesso chiesti quando un bambino è in grado di distinguere tra la realtà del mondo tangibile e la finzione televisiva che giornalmente gli viene proposta attraverso lo schermo televisivo. Una domanda posta da una lettrice del quindicinale Città Nuova ci catapulta in questo "delicato" tema...
"Mi interesserebbe sapere da quale età i bambini sono in grado di distinguere tra fantasia e realtà nei programmi televisivi?"
Il concetto di "realtà televisiva" molto complesso: quando i bambini sono in grado di stabilire che le persone e gli eventi presentati in televisione si trovano al di là dello schermo? Gli studi si focalizzano sulle risposte dei bambini alle seguenti domande: le persone, i luoghi e gli eventi che appaiono in tv sono simili a quelli che conosci nel mondo reale? Sono credibili? è probabile che gli eventi dei programmi di fiction si verifichino realmente? E via dicendo. Le ricerche ci dicono che nella maggior parte dei casi i bambini non vengono abituati sistematicamente a sviluppare queste distinzioni, ma le fanno spontaneamente grazie all'esperienza. La percezione della tv come "finestra magica" viene sostituita dalla crescente differenziazione tra realtà televisiva e realtà quotidiana in cui vivono. L'età di otto anni è stata identificata dai ricercatori come un importante punto di svolta nello sviluppo di questa comprensione. Gli studi indicano che i bambini sviluppano gradualmente la capacità di fare distinzioni tra realtà e fantasia in base a vari criteri come la comprensione che il mondo televisivo è il prodotto di una costruzione e tutti i contenuti televisivi, compresi i notiziari e i documentari, ne fanno parte; la diversa percezione di persona o di evento del mondo reale rispetto a quello televisivo; la possibilità concreta che gli eventi della tv accadano nella realtà e in che probabilità. Per esempio, come è possibile che una famiglia viva tutti gli eventi che capitano a una famiglia televisiva, quando l'esperienza quotidiana dice che è molto improbabile. E, per concludere, le caratteristiche formali del programma televisivo: per esempio, i piccoli telespettatori più "anziani" si rendono conto che una serie di immagini di una scena di guerra, seguite dall'inquadratura di un adulto che parla in uno studio televisivo, indica un notiziario "reale", mentre una scena animata e colorata di animali che parlano con voce infantile è irreale. Tuttavia, man mano che la loro conoscenza del mondo si espande, comprendono che una serie di cartoni animati potrebbe essere più realistica nel contenuto di molti programmi che utilizzano attori "veri". Non c'è dunque da meravigliarsi se, arrivati a dodici anni, proprio come gli adulti, molti bambini intervistati dai ricercatori rispondono: che cosa intendi per "reale"?, o Reale in che senso?. Ancora una volta quindi possiamo intuire il ruolo fondamentale degli adulti nell'accompagnare e sostenere, con una presenza attenta e serena, i bambini in questi complessi processi di distinzione tra mondo reale e mondo televisivo.
Risposta di Maria Rosa Pagliari tratto da Città Nuova N.18 del 25/9/2009www.cittanuova.it

martedì 9 febbraio 2010

sabato 16 gennaio 2010

Educare ed educarsi attraverso lo sport _ parte III


Carissimi lettori, Vi proponiamo la terza e ultima parte dell’articolo di Paolo Crepaz, la cui trattazione è iniziata due mesi fa. Per chi educa a fare sport e per gli atleti una riflessione viene proposta dall’autore e che troverà una risposta: “i limiti, gli ostacoli, i fallimenti, gli infortuni, le delusioni, le sconfitte sono materia prima dello sport: dall'atteggiamento verso di essi dipende il nostro crescere attraverso di esso. Fuggire, rifiutarli, negarli o affrontarli, superarli, amarli?”

IL RUOLO EDUCATIVO DI UN PADRE

Chi ha, per così dire, scoperto in Dio un Padre, e un Padre che lo ama, sa di poter essere nel proprio viaggio alla sequela di un originale educatore, che prende l'iniziativa nei suoi confronti, che lo accompagna, lo rinnova, lo rigenera, lungo un ricchissimo itinerario di formazione personale e comunitaria, con quella intenzionalità che guida il vero educatore. È stato proprio sulla constatazione che siamo figli dello stesso Padre che si è fondata l'idea forte di Comenius, primo grande teorizzatore della pedagogia moderna, che diceva: bisogna «insegnare tutto a tutti».
Questa riscoperta della più grande paternità è una risorsa importante rispetto a una certa cultura che tenta di affermare, sul piano teorico e su quello pratico, che Dio è morto. Si tratta di «un' eclissi del Padre che ha favorito anche un'eclissi di padre, una perdita di autorevolezza sul piano dei rapporti umani ed educativi, un relativismo morale, un'assenza di regole nella vita individuale, nelle relazioni interpersonali e sociali», spesso con conseguenze gravi come forme di violenza, anche nello sport. Dostoevskij affermava: «Se Dio non c'è, allora tutto è permesso». Il vero educatore, compreso quello sportivo, che riconosce l'uomo nella sua unità irripetibile, che esalta l'uomo, è per questo anche esigente: chiede ed educa alla responsabilità, all'impegno. Sapendo che l'educatore più grande dell'uomo è quel Dio Amore che lo ha amato fin a dare la vita per lui.
È nel dare la vita che si rivela l'identità di un padre: quante volte però abbiamo potuto sperimentare che persone semplici, come sono i bambini o i ragazzi, con cui spesso ci troviamo a operare, costituiscono la miglior cassa di risonanza. Da loro, spesso, l'educatore viene educato e scopre con stupore di essere divenuto loro figlio.

LA GRADUALITÀ E LA PIENEZZA

A questo primo cardine pedagogico se ne può legare un altro, sottolineato ancora dallo stesso Comenius: la regola pedagogica della gradualità. Sappiamo quanto essa sia fondamentale nell'allenamento fisico e sportivo, quanto sia fondamentale vivere il presente momento per momento, ma con consapevole pienezza, comprendere il significato della tappa educativa del giorno, ma con l'orizzonte all'infinito, stazionare nel particolare, mirando al tutto senza angoscia. Dall'originale impegno a vivere il momento presente, uno alla volta, in forma di Parola da tradurre in parole, di esistenza da coniugare in attimi di vita, scoprendo che in ciascun attimo vi è tutta la vita, viene l'indicazione a valorizzare quanto stiamo vivendo senza curarci di un passato che non è più, né di un futuro che non dipende solo da noi. Sappiamo come camminando verso la cima di una montagna non si guardi continuamente ad essa, lontana e faticosa da raggiungere, ma ci si muova passo dopo passo.
Sappiamo con quanta pazienza sia da coltivare il talento sportivo nelle persone più giovani, quanto occorra avere prudenza nella specializzazione precoce, non solo per non bruciare doti specifiche, ma per far maturare la persona prima ancora che il talento atletico.
Sappiamo quanto sia impegnativo far comprendere il legame fra la ripetizione all'infinito di un singolo gesto e 1'armonia di un insieme di movimenti: in questo gioco di già e non ancora vive il mistero e il fascino dell' espressione corporea.

VERSO UN'ETICITÀ AUTONOMA

Di norma nell'educazione della persona, dalla necessaria fase iniziale di dipendenza si passa gradualmente alla moralità autonoma. Anche nello sport l'adesione a una volontà altra (sia essa espressa dall'educatore o dalle circostanze) porta a una percezione di libertà per 1'avvenuta interiorizzazione della legge stessa. Chi ha fatto 1'esperienza diretta che esiste una Parola di Dio che parla alla nostra vita ha iniziato a scoprire la trama di una volontà precisa e non indefinita sulla nostra esistenza: ovvero che 1'educatore ha un progetto.
Il viaggio alla scoperta che esiste una volontà di Dio su di noi, una volontà d'amore, ci può aiutare a perdere, e a far perdere a coloro che educhiamo, quella negativa volontà personale che così facilmente ci lega alle anguste modalità esistenziali dell'io autocentrato. Potremmo così avviarci a un autotrascendimento, a un oltrepassamento verso il Tu che ci arricchisce e ci libera. La scoperta dell'altro, anche nello sport, aiuta a considerarlo avversario ma non nemico, a riconoscerne i meriti, a complimentarsi con lui, persino a gioire delle sue vittorie, a rendersi conto quanto senza il confronto con lui i miei talenti possano risultare sterili e inespressi, fino a ricevere da lui il dono di scoprire, nel confronto, di possedere qualità sconosciute.
Così le sfide etiche dello sport di oggi, il doping prima di altre, devono essere certamente affrontate sul piano della repressione, ma la via dell'educazione a una cultura della sconfitta, a un saper perdere per saper vincere, può dare successo alla prevenzione oggi così tanto evocata.

LE DIFFICOLTÀ COME PEDANE DI LANCIO

I limiti, gli ostacoli, i fallimenti, gli infortuni, le delusioni, le sconfitte sono materia prima dello sport: dall'atteggiamento verso di essi dipende il nostro crescere attraverso di esso. Fuggire, rifiutarli, negarli o affrontarli, superarli, amarli? L'idea chiave di un' educazione capace di portare davvero un aiuto, qualcosa di nuovo e di utile per affrontare la crisi dello sport spettacolo, business, che ammette solo vittorie, viene dalla comprensione del mistero del limite.
Cosa può venire da un Gesù che grida l'abbandono? Ci indica il limite senza limiti della nostra azione pedagogica, fino a quale punto e con quale intensità essa debba muoversi. Gesù abbandonato è figura dell'ignorante: chiede «perché?». La sua è l'ignoranza più tragica, la sua domanda la più drammatica. È l'emblema di ogni figura che ha bisogno di educazione: il disadattato, il trascurato, il non amato, lo sconfitto. È paradigma di chi, carente di tutto, ha bisogno di tutto: è «l'idea limite, il parametro dell' educando, che postula tutta la responsabilità dell' educatore». Gesù però ha superato il suo infinito dolore insegnandoci a vedere difficoltà, ostacoli, prove, errori, sconfitte come realtà da affrontare, superare, amare.
Di fatto tentiamo con ogni mezzo di evitare tali esperienze. «Anche in campo educativo - in tanti modi - viene spontaneo . tendere a forme di iperprotettività, a preservare specie i più piccoli da qualsiasi difficoltà, abituandoli a vedere la vita come una strada in discesa, facile e comoda». In realtà, in questo modo, li si lascia in forte disagio di fronte alle inevitabili prove della vita, comprese le sconfitte sportive, rendendoli passivi o renitenti di fronte a se stessi, al prossimo, alla società. Convinti che ogni difficoltà vada affrontata e persino amata, possiamo tentare di fare della difficoltà una pedana di lancio. «L'educazione al difficile, come impegno che coinvolge sia l'educando che l'educatore» è un altro punto cardine di una nuova pedagogia, anche nello sport.

UNA PEDAGOGIA SPORTIVA DI COMUNITÀ

De Coubertin, padre delle moderne Olimpiadi, attribuiva all'atletismo la capacità di introdurre tre caratteri nuovi e vitali nelle vicende del mondo: democrazia, internazionalità, pacifismo.
Mentre la storia sportiva moderna cerca con difficoltà di aprire gli orizzonti all'incontro fra i popoli e alla pace, viene da chiedersi se l'unità della famiglia umana sia un'utopia lontana.
Uno sguardo attento scorge che il nostro pianeta, pur fra mille contraddizioni, tende all'unità, segno e bisogno dei tempi. Sembra un progetto utopico, ma l'educazione, in tale prospettiva, è mezzo primario. Quando crediamo alla dimensione relazione dell'uomo e investiamo con larghezza sulle ricchezze dell'altro, la meta pare più accessibile: per l'amore scambievole sperimentiamo una socialità più autentica, una dinamica di relazione in cui sembra attuarsi una sintesi meravigliosa tra l'istanza pedagogica dell' educazione dell'individuo e l'istanza pedagogica della costruzione della comunità. Una prospettiva di questo tipo trova diverse consonanze con le forme di pedagogia di comunità di recente sviluppo, in cui viene proclamata la necessità di coniugare la promozione dell'individuo con la promozione della comunità. Ma non è solo questo. «La finalità da sempre assegnata all'educazione (formare l'uomo, la sua autonomia) si esplica, quasi paradossalmente, nel formare l'uomo-relazione»: la prassi spirituale ed educativa dell' amore reciproco è la via maestra alla costruzione dell'utopia-realtà dell'unità.
E lo sport è affidabile ed esigente campo di sperimentazione della nostra reale capacità e volontà di relazione. «La prima caratteristica dello spirito olimpionico antico come di quello moderno è quella di essere una religione» affermava De Coubertin. Lo sport non può divenire la nuova religione planetaria che unirà il mondo, ma esso può rivelare e ricreare risorse forse insostituibili per la costruzione di un mondo unito.

PAOLO CREPAZ

Tratto da Nuova Umanità XXVII (2005/2) 158, pp. 344-349