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martedì 15 dicembre 2009

Educare ed educarsi attraverso lo sport _ parte II


Questo mese continuiamo  e pubblichiamo la seconda parte dell’articolo di Paolo Crepaz, iniziata il mese precedente. In questa porzione l’autore sottolineerà l’importanza dell’aspetto sociale nella pratica delo sport e di come quest’ultimo debba venir praticato nella verità, quella verità che scaturisce dall’amore verso l’altro.

TRA GIOCO E AGONISMO

Chi pratica lo sport non sempre si cura di percepire a pieno i valori e i significati del fatto sportivo: si gioca perché piace o conviene giocare, perché si sente l'esigenza di competere, senza porsi tante domande. Ma chi opera con intenzionalità educativa nel mondo sportivo, specie giovanile, sa che i due elementi essenziali dello sport - il gioco e l'agonismo - possono diventare tappe di partenza nello sviluppo integrale della persona.
Il gioco è rivincita dell'homo ludens sull'homo faber: restituire allo sport la sua ineludibile connotazione ludica e promuoverne la gratuità significa aiutare l'uomo a liberarsi dalla morsa dell'utilitarismo, dall' attaccamento idolatrico al lavoro, e, oltre tutto, a dispiegare le esigenze dello spirito. Favorire l'ingresso del gioco nelle pieghe dell'esistenza appare un aspetto non marginale per la realtà del mondo attuale.
È la dimensione agonistica del gioco e dello sport che spinge ad andare oltre i limiti delle prestazioni precedenti e a superare gli avversari. Ma solo una parte dell'agonismo si risolve nel lottare contro gli altri: l'altra, quella maggiore, consiste nel lottare contro i mille volti del negativo annidato nel cuore, come i raggiri per eludere le regole, i facili vittimismi, le aggressioni verbali verso gli antagonisti, le ribellioni alle decisioni arbitrali non condivise, il ricorso al doping, eccetera.
Lo slancio agonistico non educato porta alla ricerca del risultato a ogni costo, a cercare la vittoria come valore assoluto, a giocare "contro" anziché "con" gli avversari e persino a farli apparire come nemici. È estremamente provocatorio il fatto che il pensiero cristiano, a volte a torto interpretato come pensiero debole e accondiscendente, inviti a mete impegnative ed elevate. Eppure proprio questa indicazione può dare alla spinta agonistica il giusto orientamento: trasformarla da semplice ricerca di risultati tecnici, che pure bisogna tenacemente perseguire, a nostalgia di traguardi più lontani, sconosciuti a giudici di gara o tifosi. Gli orizzonti più ampi dello sviluppo integrale della propria persona, fino ad arrivare a scoprire il progetto di Dio nelle sfumature delle proprie esperienze ludiche, sportive e agonistiche, si possono dischiudere anche grazie alla attività fisica e sportiva.
Ecco perché dovrebbe scomparire una visione dello sport, specie in passato presente anche fra i cristiani, come semplice passatempo, come semplice mezzo per togliere ragazzi dalla strada o come occasione fra le tante per dire loro una buona parola.
Se lo sport «è un valore dell'uomo, un luogo di umanità e di civiltà», non vogliamo cedere alla tentazione di pensare che solo un certo tipo di sport educhi: quello non agonistico, quello nella natura, quello senza classifiche, quello senza vincitori né vinti. È una tentazione sottile, comprensibile, ma smentita dal pensiero che «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore dei cristiani».

SUPERARE IL FAIR-PLAY

Le espressioni di crisi dello sport di oggi evidenziano che l'azione educativa non può limitarsi a richiamare alla coscienza dei praticanti astratti valori e principi etici: evidentemente né una generica ideologia pansportiva, né un sempre più disatteso fair-play di facciata, possono rivelare all'uomo, attraverso lo sport, il significato e il fine ultimo della propria esistenza.
Con l'attenzione ai valori più alti dell' esistenza umana, lo sport rivela la dimensione essenziale dell'uomo sia come essere "finito" (sconfitta, infortuni, incapacità di altruismo o ad accettare un verdetto negativo) sia come essere "infinito", capace di risorgere in ogni tentativo di superare i propri limiti. Non si tratta in sostanza di aggiungere nuovi contenuti allo sport, ma di evidenziarli e collocarli nella giusta direzione. Non si tratta tanto di condannare o di sfuggire dallo sport di oggi, dalle sue contraddizioni, dalle sue disperate corse verso l'onnipotenza o l'immortalità, dalla sua schiavitù al denaro. L'uomo è competizione, è vittoria e sconfitta, è tensione alla perfezione e abisso di incertezze, e come tale vuole essere accettato, capito, amato. È una sfida ambiziosa quella di "farsi uno", accettando senza riserve, non tanto con lo sport di oggi, quanto piuttosto con chi lo pratica, contribuendo a instillare silenziosamente e con pazienza germi di positivo.

L'AMORE EDUCA

Ma chi sa educare in questo modo? Educare deriva da educere, tirare fuori, una prospettiva che invita più a cavare dall'allievo le verità che ad instillarvele dall'esterno. Si impone la necessità che il maestro sappia trarre da se stesso e dagli altri le verità onde averne un raffronto. Ma chi è in grado di far germogliare le verità che vivono in lui e negli altri?
Come occorre la primavera perché un giardino fiorisca, allo stesso modo si rende necessario un calore - quello, pensiamo, che nasce dall'amore - per far germogliare le verità. Le teorie pedagogiche, comprese quelle sportive, hanno sentito nel tempo l'esigenza di tener conto che esiste una dimensione fondamentale dell'uomo che porta conseguenze decisive per l'educazione e l'apprendimento: la sua naturale socialità. Questo lascia intuire che anche l'educazione vada costruita e raggiunta a corpo, in quell'atteggiamento che ci fa aperti a lasciarci completare dalla conoscenza altrui, tanto più che oggi nessuno può arrivare ad avere una conoscenza che comprenda tutta la realtà.
Probabilmente «non basta un qualunque lavoro in équipe, un mettere assieme tante idee, tante conoscenze, per trovare una sintesi». Realizzando in un'autentica comunione di vita il processo educativo, la formazione potrà risultare piena, totale, capace di impegnare tutto il nostro essere e determinare la nostra vita.
Ci affascina la sfida di conoscere quale progettualità educativa possa venire da persone «che siano loro stesse fuse in unità» in un' atmosfera di calore reciproco, un'unità che per il credente arriva fino a poter sperimentare quanto possano essere vere le parole di Gesù: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». E per questo: «Non fatevi chiamare maestri, perché uno solo è il vostro maestro». È un'indicazione misteriosa, ma affascinante: chi ha sperimentato l'amore reciproco sa che questo porta la presenza del Maestro, quello con la emme maiuscola, in mezzo alle persone.
Chi crede nei valori dell'uomo, anche senza legarsi a riferimenti religiosi, può condividere e sperimentare quanto un sincero e profondo atteggiamento di fiducia reciproca fra chi educa e chi è educato attraverso lo sport, sia precondizione ad un apprendimento efficace. Quanto è importante, ad esempio: saper perdere tempo per ascoltare le confidenze di un ragazzo che si forma in una disciplina; o dialogare con genitori carichi di aspettative a volte ingiustificate; o far comprendere a un atleta la stima che si nutre per il suo duro lavoro, indipendentemente dai risultati sportivi; o viceversa quanto sia rilevante lasciare con fiducia al tecnico il tempo necessario per coltivare talenti e ottenere risultati; o non coltivare pregiudizi nei confronti del giudice di gara, concedendogli di svolgere senza condizionamenti un ruolo importante di servizio allo sport; o ancora sperimentare quanto divenga concreta la fiducia reciproca nell'arrampicarsi in cordata legati l'un l'altro.
L'amore è per sua natura esperienza concreta e lo sport offre questa opportunità educativa straordinaria: quella di poter verificare, giorno dopo giorno, l'unità esistenziale fra teoria e prassi, fra aspirazioni e imprese, fra obiettivi e risultati reali, fra convinzioni più o meno fondate e imparzialità del cronometro. La messa in pratica, nel processo educativo e sul campo, non solo è mezzo per conoscere la realtà, ma strumento di formazione umana reale ed effettiva. Il lavoro ci dà il senso del reale: ci aiuta ad uscire dai libri e trovare un pensare che sia vita, essere, umanità.

PAOLO CREPAZ

Tratto da Nuova Umanità XXVII (2005/2) 158, pp. 340-344